Da antichi laboratori farmaceutici a moderne erboristerie per il benessere
Lo scorso 26 settembre ha riaperto al pubblico, dopo 217 anni, l’antica Spezieria del Santuario di Madonna dell’Arco, che prestò servizio sin dal 1645. I locali, oggi restaurati e inclusi nel percorso del Museo degli Ex Voto ad opera del priore Padre Giampaolo Pagano, con le loro volte arcuate, gli affreschi dalle suggestioni di divinità greche e accademici antichi e le vestigia di vasellame originale del ‘600, rievocano un’epoca in cui il convento era il punto di riferimento della pubblica sanità e della ricerca farmacologica. Si tratta di un retaggio millenario di conoscenze farmaceutiche custodite e tramandate nei secoli, ad oggi quasi dimenticate, ma che ultimamente stanno attraversando un nuovo rinascimento: quello delle spezierie monastiche.
“Degli infermi si deve avere cura prima di tutto e al di sopra di tutto, cosicché si serva a loro come a Cristo in persona”. Così affermava San Benedetto nella sua Regola. A partire dal VI secolo i frati benedettini furono infatti i primi a dotarsi di un “orto dei semplici”, o hortus sanitias, dedicato esclusivamente alle piante medicinali e distinto dall’”orto degli eduli” dov’erano coltivati ortaggi e verdure. I monasteri benedettini erano concepiti come ospizi per le anime e per i corpi, perciò da prescrizione della Regola ogni convento disponeva di un infirmarius, monaco addetto alla preparazione di rimedi naturali e alla cura dell’orto, dove propagava specie selvatiche raccolte nei boschi limitrofi. I monaci farmacisti apprendevano con la pratica dai propri predecessori e si formavano su testi medici e botanici di autori sia classici che contemporanei: Ippocrate, Galeno, Averroè, Avicenna, Dioscoride Pedanio, Oddone di Meung…

I locali del chiostro dov’erano accolti i malati e radunati mortai, qualche alambicco e una manciata di piante medicinali acquisirono, col passare del tempo, la forma e il nome di “spezierie”, veri laboratori specializzati, e pharmaciae, dove se ne rivendevano i prodotti. Tra i primi monasteri a dotarsene vi furono l’Abbazia di Montecassino, la Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma e i conventi di San Giovanni Evangelista a Parma e di Sant’Anna a Genova.
All’epoca, la medicina era distante dalle odierne evidenze scientifiche e si fondava sull’autorità della teoria umorale galenica, di corrente aristotelica. Da erbe officinali autoctone o provenienti da oriente, le cui proprietà erano attinte dagli erbari, sperimentate sul campo o interpretate dai testi sacri, i monaci speziali producevano unguenti a base di grasso animale o elettuari, conservati sotto miele, dalla funzione stimolante oppure attenuante degli “umori” da trattare; non mancavano ingredienti esotici, velenosi o presunti tali, ad esempio i “torsici” di vipera alla base dei mitridatici, tossine a basso dosaggio per terapie immunizzanti. La pratica reiterata e supportata da uno studio sempre più approfondito risultò in una vasta produzione originale: i monaci raccoglievano le nuove conoscenze in erbari e manuali costantemente aggiornati, trasformando così il chiostro nel più grande scrigno di sapere farmacologico del suo tempo.
Sempre più ordini monastici presero a seguire l’esempio benedettino, primo fra tutti i Domenicani. Alle porte del XVII secolo le spezierie monastiche erano al loro massimo splendore e quasi ogni convento d’Europa ne annoverava una: erano tappe fisse dei pellegrinaggi, ricoveri per i pazienti più poveri e rivenditori di medicinali di rinomata efficacia, ricercati anche dalla nobiltà. Sempre più spesso i monaci ricevevano una formazione universitaria ed erano a loro volta convocati alla gestione di scuole e ospedali; mantenevano inoltre i prezzi bassi e distribuivano i farmaci gratuitamente a poveri e bisognosi per obbligo religioso. Tale ruolo privilegiato non tardò ad attirare lamentele di concorrenza sleale da parte delle corporazioni di medici e speziali. I dissensi conseguirono in una serie di restrizioni emesse tanto dall’Imperatore quanto dal Papa. Vigevano obblighi come quello di dotarsi di un funzionario laico per le vendite e la contabilità, iscriversi a gilde o allinearsi coi prezzi di mercato.
Poco efficaci furono tali provvedimenti a ridimensionare l’attività delle spezierie, che anzi crebbero di volume e prestigio e si diffusero nei secoli successivi. Aprirono spezierie la Certosa di San Martino, Santa Maria Novella a Firenze, e persino il Papa stesso prese a rifornirsi a quella del Monastero di Santa Cecilia in Trastevere. Queste ultime sarebbero in seguito state il modello per le prime farmacie laiche.
Il vero declino delle farmacie monastiche arrivò nel XIX secolo, a seguito dell’ondata di rivoluzioni antimonarchiche in Europa a cui fece seguito anche la confisca di numerose proprietà ecclesiastiche. La graduale abolizione delle farmacie conventuali italiane fu dovuta alla soppressione napoleonica degli ordini religiosi del 1810 e confermata dallo Stato unitario, fino alla chiusura delle ultime ancora operative negli anni ’50. La spezieria di Madonna dell’Arco rimase in attività fino al 1808, quando Giuseppe Bonaparte ordinò lo scioglimento dell’ordine e la confisca dei beni.

A partire dagli ultimi anni ’90, tuttavia, sempre più locali di spezierie conventuali storiche sono stati restaurati e riaperti, in taluni casi allo scopo di musealizzarli, mentre in altri è stata recuperata dai confratelli la produzione di fitoterapici artigianali, secondo i metodi tradizionali coadiuvati dalla più moderna ricerca scientifica. Ad oggi, istituzioni religiose come l’Abbazia di San Paolo fuori le Mura rivendono, anche online, i rimedi naturali di propria produzione.







