Alla scoperta del Rinascimento Napoletano

Sono certa che chiunque nell’Italia di oggi conosca i nomi dei grandi artisti del Rinascimento: Donatello, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Giorgione, Tiziano. Tutti autori nati o attivi per lo più nel centro o nel nord Italia. E sono altrettanto sicura che se chiedessi di fare il nome di un solo artista del Rinascimento napoletano, quasi nessuno sarebbe in grado di farlo. E perché mai? Per due ragioni: prima di tutto perché la storia dell’arte del Mezzogiorno, almeno fino agli anni cinquanta del ‘900, è stata pressoché ignorata dalla gran parte degli storici, a esclusivo beneficio della grandeur storico artistica tosco-romana, a noi tutti arcinota; e anche perché in verità non esiste un reale “Rinascimento” napoletano; non nell’accezione comune che si dà del termine, per lo meno. Vorrei quindi provare a illustrare, in maniera molto sintetica, perché ciò avvenne.

Per poter capire la cultura pittorica del regno di Napoli nei secoli XV e XVI bisogna partire da una considerazione preliminare: l’enorme differenza sociale, politica ed economica esistente tra questa regione geografica e le altre aree della penisola. A Napoli, ancora nel Cinquecento inoltrato, non esisteva una reale Weltanshauung (visione) del Rinascimento, così com’era intesa, ad esempio, nella Firenze medicea, nella Ferrara Estense o presso le corti di Urbino e Mantova. Nel Regno di Napoli il Rinascimento non nacque come fenomeno endemico, ma venne di fatto importato dall’estero.

Il Rinascimento è, infatti, creatura figlia della nobiltà moderna e della nuova borghesia, del loro gusto neo-antico e del mecenatismo da queste promosso. Le grandi opere passate alla storia e che noi tutti oggi ammiriamo con occhi di meraviglia erano la dichiarazione di un prestigio personale e familiare, sociale, politico ed economico conseguite per mezzo delle proprie capacità, per mezzo di quell’ingegno tutto moderno dell’homo faber fortunae suae. Homo condottiero, banchiere, mercante, principe, cardinale, doge, sempre desideroso di mostrare al mondo la grandezza raggiunta mostrando raffinate collezioni private o palazzi sontuosi. Un po’ come fanno gli odierni parvenus, che comprano automobili vistose, yatchs e accessori di lusso; con la differenza che a quel tempo i ricchi avevano gusto.

Nella nostra Napoli nel tardo ‘400, invece, non troviamo una società fondata sulla nuova moderna impresa, come la coeva Firenze, bensì una città di nobili e feudatari, baroni e viceré, alloggiata in uno Stato che si definiva -significativamente- ancora “Regno”, quando tutt’intorno si sviluppavano o rafforzavano signorie, ducati e repubbliche. Mentre nelle terre limitrofe, infatti, l’umanesimo e le arti erano strutturalmente condivise dalle famiglie gentilizie come status simbol del prestigio raggiunto, gran parte dei notabili napoletani, specie quelli importati dalle terre ispaniche, le reputava cose poco avvezze a dei “gentilhomini”, per i quali era ritenuto più interessante consolidare il potere personale, acquisire nuovi possedimenti o dedicarsi a passatempi giudicati più consoni.

In questo contesto sociale capillarmente permeato di cultura feudale, in cui “i cavallier, l’armi, gli amori e l’audaci imprese” erano tenuti in primo conto dai nobili come strumenti e attestazione di prestigio, le strutture sociali arcaiche, tipiche della antica feudalità europea, specchi appannati di un medioevo cortese tutt’altro che estinto, trionfavano e si rinsaldavano con l’avallo della corona spagnola.

Tant’è che Pietro Summonte, letterato illustre, membro dell’Accademia Pontaniana -istituzione umanistica promotrice di arti e scienze – rivelava la propria amarezza per la perduta stagione di grande fioritura artistica del periodo angioino quando, nella sua celebre Lettera sull’arte napoletana, riferendosi ai nuovi reggenti spagnoli, apostrofava: «li nostri re, non hanno atteso se non alle cose della guerra, alle giostre, ad fornimenti di cavalli, alle cacce, amando e premiando solo li artefici di queste cose».

È indicativo anche il fatto che la suddetta Accademia verrà chiusa nel 1542 da “sua eccellenza” Don Pedro di Toledo, l’allora viceré spagnolo, che, come molti suoi conterranei, vedeva negli istituti culturali una minaccia dalla quale tutelarsi.

E, ancora in pieno XVI secolo, l’aristocrazia napoletana viveva la favola aurea delle medievali chansons des gestes, col tacito supporto della cultura e della chiesa castigliane. Se poi aggiungiamo l’incertezza politica, il continuo mutare di poteri stranieri, con interessi anche in territori esteri (ricordiamoci che la corona aragonese era in piena espansione coloniale), l’impegno economico profuso a difendere i confini del Regno dagli attacchi dei nemici, comprendiamo perché il Regno di Napoli non fu caratterizzato dalla originale fioritura artistica che prendeva corpo nelle altre corti italiche.

Non è casuale, infatti, che i protagonisti della committenza artistica nel Cinquecento non saranno gli aristocratici o i mercanti, bensì i grandi ordini religiosi, che fiorirono in città con impressionante fervore, e che saranno promotori di frequenti lavori di restauro e abbellimento dei loro edifici di culto, luoghi per i quali gli artisti regnicoli realizzeranno le opere migliori.

È pur vero però che qualche reggente, Alfonso “il Magnanimo” in primis, si era fatto garante di una fertile stagione di mecenatismo celebrativo. Alfonso V di Aragona, primo re di Napoli, educato sin da piccolissimo alle arti e alle lettere, ebbe, nella politica culturale napoletana, un ruolo per certi versi simile a quello che Lorenzo il Magnifico avrà a Firenze. Il suo mecenatismo toccò tutte le produzioni artistiche, dalle lettere alle arti applicate. La sua biblioteca, che raccoglieva testi classici e preziosi codici miniati, era frequentata dai maggiori umanisti del periodo: Jacopo Sannazzaro, Giovanni Pontano, Pietro Summonte, solo per citarne alcuni, e nelle sue collezioni private figuravano molte opere di gusto nordico, provenzale o fiammingo, “cose tedesche, francesche e barbare”. Sotto l’egida di questo colto e illuminato sovrano, si intensificarono i traffici commerciali e i rapporti di scambio artistico con i possedimenti spagnoli e con le Fiandre, con il conseguente arrivo a Napoli di moltissimi artisti stranieri: spagnoli, lombardi, toscani, umbri.

Tra la seconda metà del Quattrocento e la prima del Cinquecento, infatti, furono numerosi gli artisti stranieri nel Regno: Pedro Machuca, Bartolomé Ordonez, Cristoforo Scacco, Diego de Siloé, Pedro Berruguete. Questi diffusero nel Regno una pittura sincretica, costituitasi su modelli catalani, lombardo-veneti e tosco-romani, che partecipava dello stile spagnolo più arcaico – legato ancora a certi prototipi tardogotici – e che, al contempo, si mescolava con le novità del Rinascimento italico che circolavano nelle corti del centro-nord.

La stagione pittorica napoletana dei secoli XV e XVI, discontinua e intensissima, non può essere, in sostanza, valutata sulla base di un fenomeno, il Rinascimento, che non è appartenuto endemicamente a quel territorio, ma va analizzata attraverso una prospettiva interna, e non per mezzo di criteri mutuati da un sistema straniero, avulso dal contesto. Articolata e semplice, mutuata eppure individuabile, colorata ed eccentrica, sincretica e fortemente tipica, in certi casi perfino kitsch, la produzione artistica napoletana quattro-cinquecentesca è, in sintesi, l’espressione artistica di un popolo che ha cercato di adeguarsi alle nuove istanze, al mutare dei tempi, ma senza alterare la propria sensibilità caratteristica.

Ed è proprio in questo contesto poliedrico, così vivace e stimolante, ad esempio, che Colantonio innestò la sua bottega. La stessa bottega nella quale, negli anni ‘40 del Quattrocento, lo splendore del Mezzogiorno, Antonello da Messina, conobbe gli ultimi esiti della pittura fiamminga e imparò ad intingere i sottili veli dell’animo umano nella luce dorata del Mediterraneo.

 

 

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