L’azione, in sinergia tra la Soprintendenza metropolitana ABAP di Napoli retta da Paola Ricciardi e la procura della Repubblica di Torre Annunziata, con il procuratore Fragliasso  

Carlo Avvisati

Sulla muratura di quanto ancora resta di quella che nel I secolo dopo Cristo fu una delle residenze più belle dell’area suburbana di Pompei, la villa di Numerio Popidio Floro, la tessitura delle pietre in opera incerta fatta di pietra vesuviana, tufo di Nocera, pietra sarnese e mattoni di cotto, spunta ben visibile tra l’intonaco cadente, quasi dieci metri più in basso dell’attuale sede stradale.

Cinque mesi di lavoro e quasi duecentomila euro serviranno per mettere in sicurezza quei ruderi e cominciare i lavori di recupero di quanto resta, oltre a mettere in essere una serie di indagini archeologiche sia su quanto della fabbrica è ancora visibile e fuori terra, sia su quanto nel raggio di una decina di metri è ancora sotterrato. Gli anni: la villa venne individuata e scavata, nel 1906, da Giovanna Zurlo Pulzella nel fondo di sua proprietà, in contrada Pisanella, e le radici di un maestoso pino hanno inferto ferite terribili alle murature e agli ambienti ancora sotterrati o visibili. Tanti, questi ultimi: ben ventiquattro, tra triclinii, cucina, cella vinaria, alcove, aree destinate agli schiavi, quasi sempre ben pavimentati, e ben decorati con pitture di tutti gli stili pompeiani.  L’attribuzione a Popidio Floro fu fatta in virtù di due iscrizioni epigrafiche: titoletti votivi in cui si riscontra sia il nome del proprietario sia quelli degli dei da lui venerati: Giove Ottimo Massimo e la triade protettrice della campagna vinifera vesuviana, come ebbe a ipotizzare Matteo della Corte: Venus, Liber, Hercules.

Numerio Popidio Floro fu dunque personaggio importante, forse un magistrato, della vita politica e sociale della città da Venere protetta. La villa, quanto scavato, venne letteralmente spogliata di oggetti e attrezzi, oltre che delle decorazioni e dei mosaici. Alcuni pannelli decorativi si trovano al Mann di Napoli. Altri, cinque, si trovano al Getty Museum, a Malibù. Come ci siano arrivati è un mistero. Forse una incursione di tombaroli e vendita sul mercato estero di quanto depredato, visto che l’area è stata e resta una specie di “pozzo di San Patrizio” per gli scavatori clandestini. Tanto che la stessa villa di Popidio Floro qualche anno fa venne “visitata” dai predatori della storia.

“Nel 2021 – sottolinea difatti il procuratore Fragliasso – abbiamo rinvenuto e sequestrato, grazie ai carabinieri del Nucleo TPC provinciale, due cunicoli clandestini che recavano tracce e segni di attività di scavo recente a dimostrazione dell’interesse archeologico dei tombaroli. I due cunicoli sono stati dissequestrati e restituiti alla famiglia Faraone Mennella, proprietaria del fondo, che ne ha dato la disponibilità alla Soprintendenza”

Responsabile unico del procedimento di recupero e messa in sicurezza, che può essere considerato come primo passo di una attività di sondaggio e di scavo attraverso cui verificare anche l’opportunità di riportare alla luce l’intero complesso della villa, è Luca Di Franco, con Filomena Russo Del Prete, direttore dei lavori. Dell’antico complesso sono ancora visibili alcuni ambienti del settore termale con affreschi e mosaici ancora in situ.

“L’intervento mira dunque, secondo la soprintendente Ricciardi, da pochi giorni insediatasi a Palazzo Reale – non solo a favorire iniziative di valorizzazione del sito ma anche alla ulteriore salvaguardia, conoscenza e   fruizione del patrimonio archeologico vesuviano”.

“In questa ottica – riprende il procuratore – evidenziamo che dal 2021 è stata sollecitata ed è in corso una rogatoria internazionale della procura di Torre Annunziata diretta alle autorità statunitensi e volta a verificare la legittimità della presenza di cinque mirabili pannelli affrescati provenienti dalla villa di Popidio Floro che sono esposti nella villa Getty di Malubù, a Los Angeles. Le autorità USA non ci hanno mai risposto. Noi abbiamo fondati sospetti investigativi che questi pannelli siano stati illegalmente trasportati all’estero e illecitamente acquistati dal Museo. Per questo motivo abbiamo chiesto la documentazione che dimostri la liceità dell’acquisto”.

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