Viaggio negli ambienti meno noti della Certosa di Padula

Parlare di una realtà come la Certosa di San Lorenzo non è impresa facile, per molteplici motivi. Prima ragione, semplice quanto oggettiva, i 51.500 mq di superficie che la conchiudono e che la rendono il più grande complesso monastico d’Europa; successivamente la sua lunga e articolata storia, che inizia nel 1306 e arriva fino a quasi tutto il XVIII secolo e che si traduce in una mescolanza e sovrapposizione di stili e tecniche numerosi quanto variegati; a questo aggiungiamo che, a seguito di vicissitudini storiche avverse, come le spoliazioni napoleoniche del 1807 e le leggi eversive del neo Regno d’Italia, che dal 1866 soppressero gli ordini religiosi espropriandone i beni, tante opere mobili, suppellettili e decorazioni scultoree che ornavano le pareti e i pavimenti del complesso andarono perduti, dispersi o danneggiati.

Per tale ragione si è scelto di raccontare qui una piccola campionatura delle oltre 320 stanze, riduttiva, certo, ma che potrà fornire un accenno di visione delle mille meraviglie per le quali la Certosa di Padula val bene una visita.

Partiamo dalla coda. Da un ambiente normalmente escluso dal percorso di visita, e quindi visitabile solo in ragione di occasioni speciali, come durante le Giornate del Patrimonio o nel corso di mostre ed eventi di particolare risonanza artistica. In queste occasioni è imperativo salire la stretta scala elicoidale – nata dall’ingegno barocco di Gaetano Barba – e approdare al piano nobile, dove un bellissimo pavimento dipinto a mano fa da entrée alla sala della biblioteca. Quando ci si ferma sul piancito maiolicato antistante l’ingresso, alzando lo sguardo, la prima cosa che colpisce è una frase incisa al di sopra del portone: “Dai al sapiente la sua occasione e la sua sapienza aumenterà”. La sapienza che racchiudeva questa biblioteca era contenuta in circa 20.000 volumi, conservati in superbi armadi in legno di noce, che vestono completamente le pareti della sala. Nonostante oggi gli armadi siano vacanti perché la maggior parte dei volumi fu spostata dai monaci nella badia di Cava per salvarli dai furti napoleonici (e successivamente molti finirono alla Biblioteca Nazionale di Napoli), il loro fascino resta inalterato. In verità, varcando la porta del vestibolo, l’occhio è così rapito dal vortice di colori della stanza che, inizialmente, quasi non ci si avvede che le scansie siano vuote: il tripudio dei gioiosi colori del pavimento colpisce e rapisce il visitatore. Un disegno a fiori, foglie e mascheroni, nei tipici colori delle riggiole settecentesche: blu, giallo, verde e arancio, gli stessi del chiostro di Santa Chiara a Napoli; e infatti gli autori del pavimento sono proprio gli stessi: quei fratelli Massa, titolari di un’importante e ricca bottega di ceramica artistica nella Napoli del ‘700, che nella certosa firmarono diverse committenze. A completamento del connubio ideale di scansie e pavimento, troviamo gli affreschi della volta e delle pareti, sempre settecenteschi, a tema allegorico, di fattura non eccelsa, ma che integrano bene il disegno generale della stanza.

Le maioliche del pavimento della biblioteca non sono un unicum negli spazi della Certosa. Altre stanze conservano pianciti di grande bellezza, realizzati sempre in ceramica dipinta, come il pavimento della chiesetta di San Lorenzo o il pavimento dell’antica spezieria, oppure in tarsie marmoree, come nel Refettorio. Ma “pietre colorate molto vaghe e belle” sono state utilizzate anche a decorazione degli elementi scultorei della certosa: pannelli, portali, pulpiti e, sopra tutti, gli altari: quelli della chiesa e quello della sagrestia in primis, che, più che altari in pietra, sembrano ricami in pizzo di Cantù realizzati al tombolo dalle sapienti mani di maghe-tessitrici. L’altare maggiore della chiesetta di San Lorenzo, il più raffinato fra tutti, raffigura una scena lussureggiante di uccelli che banchettano tra ramage di fiori e foglie in polvere di marmo colorata, pietre dure e madreperla, realizzati nella seconda metà del Seicento dalla mano sapiente di Giovan Domenico Vinaccia, architetto e scultore napoletano che ebbe commissioni importanti nella città partenopea (in Duomo, nella Chiesa del Gesù Nuovo e in Santa Maria Donnaregina, solo per citarne alcune): non proprio il primo artista di passaggio. D’altronde, i certosini di Padula avevano sempre potuto fruire degli artisti più bravi, campani e non, grazie alle ottime relazioni diplomatiche coltivate nel corso dei secoli con i confratelli delle altre certose e anche con influenti personaggi secolari.

Ma restiamo nella chiesetta di San Lorenzo, collocata nel portico della foresteria: il primo che si incontra entrando dopo la facciata monumentale. Sullo splendido portale rinascimentale in cedro del Libano, delle piccole formelle scolpite con episodi della vita di San Lorenzo e San Bruno (i due santi legati alla certosa e all’ordine) accolgono il visitatore con un’eleganza sobria e discreta; eleganza che mal si accosta al clamore degli stucchi settecenteschi, che ostentano il trionfo del loro dorato splendore sul bianco claustrale delle medievali volte a crociera. Per fortuna, nel mezzo, a raccordare questa difficile convivenza, troviamo i bellissimi cori (quello dei conversi e quello dei padri) dei primissimi del Cinquecento, che uniscono simboli bucolici e pagani – opportunamente cristianizzati – in raffinatissime tarsie lignee, con pannelli che accostano scene dal Nuovo Testamento a scorci di città quattrocentesche rappresentate in perfetta prospettiva centrale. Un’opera da manuale: ed è subito Rinascimento.

E veniamo all’ultimo luogo di questo mini-tour tra i corridoi della Certosa. Ultimo anche logisticamente, visto che si trova ubicato al fondo del complesso, dopo il portico grande, al termine del porticato di sinistra: sto parlando del monumentale scalone barocco: la cerniera tra il pian terreno e il piano nobile. Lo scalone, che fu l’ultima e costosissima opera di rinnovamento voluta dai monaci (prima di lasciare il sito sotto minaccia delle invasioni napoleoniche) fu commissionato a Gaetano Barba, architetto napoletano che lavorava per i certosini da alcuni anni e che, qualche anno prima, aveva realizzato la già citata scala della biblioteca. Lo scalone della certosa, oltre al gusto personale dell’architetto, rivela anche chiari riferimenti all’opera di Luigi Vanvitelli e di Ferdinando Sanfelice; così tanto che le grandi finestre oblunghe che richiamano tout-court quelle dei palazzi napoletani Sanfelice e dello Spagnolo, hanno fatto ipotizzare anche la partecipazione di Sanfelice al progetto dello scalone di Padula. Ad ogni modo, queste aperture nella pietra, che si aprono sul declivio delle colline del Vallo di Diano, rappresentano l’opera d’arte finale, o meglio, l’opera d’arte totale, perché attraverso esse si crea una sintesi perfetta, nella quale l’uomo è attore, la pietra di Padula architettura e lo spazio immenso che si apre sul giardino e sulle montagne in secondo piano il fondale vivo di uno sfondo magistrale. Come la grandiosa scenografia di un’opera di Metastasio che nello stesso secolo veniva rappresentata al Teatro di San Carlo.

Salendo gli antichi gradini di pietra viene da pensare che Leonardo avrebbe trovato in quell’ariosa vista una grande fonte d’ispirazione per dipingere i suoi cilestrini paesaggi a volo d’uccello e, forse, osservando come ogni elemento di questo monastero contribuisse ad accrescere la stessa unica bellezza del luogo, magari avrebbe detto qualche frase del tipo: “d’ogni cosa la parte ritiene in sé la natura del tutto”. E noi contemporanei non avremmo potuto che convenire con lui.

Crediti fotografici dell’autrice e dal web.

 

 

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